Misantropo al Franco Parenti

Il dramma di Molière che più amo. Il protagonista rifiuta categoricamente di accettare il giusto mezzo, la preilluministica (siamo ancora nel XVII secolo!) ragionevolezza di chi accetta i compromessi necessari alla vita in società. Un mondo di sincerità e franchezza come lo auspica Alceste è impossibile. Si deve accettare un certo livello di ipocrisia se non ci si vuole rinchiudere nel romitaggio di un qualche deserto. Come il Gulliver che di lì a qualche decennio si ridurrà a evitare la compagnia degli Yahoo per conversare con il proprio cavallo (nel suo ultimo viaggio le parti sono invertite e la saggezza è appannaggio degli equini mentre i bipedi sono dei selvaggi privi di intelligenza), Alceste abbandona la società civile.

E’ una commedia amarissima che mette in scena la difficoltà di avere dei rapporti sinceri con gli altri. Andrée-Ruth Shammah ci ammonisce, sia dal palco che dal programma di sala, che il testo del Misantropo è attualissimo senza che intervenga un regista a sostituirsi a Molière.

Ha perfettamente ragione. Gli inservienti del teatro in tuta rossa che compaiono all’inizio dell’atto per mettere in ordine gli oggetti di scena sono lo scivolo che ci conduce alla narrazione di Molière. Per tutte le due ore dello spettacolo rimaniamo fermi in un ‘600 in cui non fatichiamo a riconoscere quanto sia problematico relazioniarci anche solo con i vicini di poltrona.

Ottimi gli attori, perfetta la regia… bisognerebbe dedicare due parole al traduttore Valerio Magrelli che ha deciso di mantenere la rima con dei risultati davvero eccellenti. Il testo originale ci guadagna se mantiene quella che i latini avrebbero chiamato numerosità tanto più che gli attori sono bravi a sufficienza da non dare al loro testo la meccanicità di una metrica destinata a finire su una rima.