Ligeti – Grand Macabre – Vienna 2023

Venere e il Capo di Ge-Po-Po – entrambi interpetati dalla perfetta Sarah Aristidou – indossano la stessa gonna circolare gigantesca a losanghe gialle. Adesso capisco da chi Adès si è ispirato per il suo Ariel. Nel finale, come già nell’ubriacatura di Nekrozar, è altrettanto evidente quello che verrà trapiantato in “The Tempest”.

Ligeti può essere il punto di arrivo degli spettatori di 2001: Odissea nello spazio, che ritrovano echi del monolite nell’interludio orchestrale che conduce all’ultima scena. Ma può anche fare da casella di partenza verso una modernità che non conosce barriere, che inaugura un lavoro con le trombette delle prime automobili o con un set di campanelli elettrici, che scova sonorità trasparenti ed elettriche, le spigolosità di un’arte che vuole costruire un linguaggio nuovo e libero. Heras-Casado preferisce questa seconda visione quasi zappiana.

L’allestimento è in sintonia con tale approccio: spesso il fondale è costituito da un Bosch strappato, come se dovessimo prendere con le molle le visioni dell’aldilà. La scena centrale porta al parossismo la fantasmagoria di colori e figure – i tavoli sono ricoperti da tovaglie a scacchi rossi, come nelle osterie popolari e intanto i personaggi volano stralunati da una parte all’altra della scena sotto l’occhio di telecamere che ci consentono di vederli contemporaneamente anche dall’alto.

Anarchia, dissacrazione. Amando e Amanda (Maria Nazarova e Isabel Signoret) ammiccano al pubblico sottolineando il loro piacere fisico. Forse Nostradamors e Mescalina (Wolfgang Bankl e Marina Prudensakia) sono gli unici ad essere castigati in rapporto al testo sessualmente bollente che debbono cantare. E Gerhard Siegel sa essere caratterista come si chiede a Piet.

Lascio in fondo Nigl, un Fischer-Dieskau del repertorio contemporaneo, inenarrabile.