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Daphne – Staatsoper Berlino 2023

Glorioso questo ultimo Strauss, che distilla la sapienza della musica come si è dipanata fino a lui dai tempi del buon J. S. Bach. E’ pieno di orgoglio nel suo essere epigono e, come il Verdi che ride della gente dozzinale che lo disprezza, continua a fare la musica che gli è congeniale, fuori dalle mode e dalle convenzioni di una malintesa modernità. Sarà anche musica sorpassata, che evita la gloria atonale – dopo che il medesimo Strauss era stato a un passo dal varcare il confine ai tempi della Elektra (e rimpiango di non aver conservato l’analisi in cui Dominique Jameux mostrava quanto l’autore fosse ardimentoso e libero nell’estendere i limiti della tonalità presentando la rosa a Sophie). Ma come è bello!

Thomas Guggeis senza farmi intaccare la montagna di Kleenex che tengo in serbo per il finale (ma Sawallisch è morto da tempo, purtroppo) dirige bene e con sicurezza. Pavel Cernoch e Linard Vrielink (Apollo e Leucippo) mostrano che possiamo anche oggi vivere bene senza Vogt, ottimi Réné Pape e Anna Kissjudit (Peneo e Gea). Vera-Lotte Boeker supera in scioltezza le agilità mantenendo un aplomb sentimentale da marescialla. E’ senza dubbio da osservare perchè ha spazio per crescere.

Visto che si tratta pur sempre di opera in video bisognerebbe parlare di Romeo Castellucci che ambienta tutto nel solstizio invernale: falde di neve, pastrani, piumoni, cuffie di lana, ombrelli e stivali. Solo la protagonista è in mutande e maglietta, con agli arti dei rossori che non fanno presagire bene. Sulla pancia una ferita amfortesca che neppure la mano di Apollo richiude. Nel finale, l’albero – spoglio – scende dall’alto capovolto. Statue e bassorilievi greco-romani. A sinistra una erma con scritto ER. Quando mi sono stufato di chiedermi cosa c’entrasse la Regina Elisabetta una piccola rotazione mi mostra un SIE che mi ha chiarito (che parolone!) la situazione anche se non so dire perchè si sia mostrato il frontespizio di The Wasteland. In compenso degli straordinari effetti di luce e colore che salvano dal fallimento la regia.

Don Giovanni – Napoli 1958

Una registrazione che ha esattamente la mia età, quando i palcoscenici non erano pieni di stampelle e sedie a rotelle, dove i direttori d’orchestra erano dei Sanzogno qualsiasi, bestie incapaci di stupire un pubblico blasé ma che sanno cosa significa tempo tagliato. Nelle mani di questo dozzinale musicastro Mozart vive con il brio che gli compete, Zerlina (Graziella Sciutti) canta con una verve che ci lascia capire perchè questa strega sedusse Masetto (Ferruccio Mazzoli), Don Giovanni (Mario Petri) offre una grande lezione di canto e recitazione nei banalissimi “No!” che egli rivolge al Commendatore (Franco Calabrese). Ma chi saprebbe resistere a un simile “Deh vieni alla finestra”? Senza dubbio Currentzis, il geniale direttore d’orchestra.

Io preferisco tenermi questi cantanti di second’ordine – non ho ancora citato Bruscantini, Ligabue, Alva e Moscucci che brillano anche in un suono monofonico tutt’altro che perfetto e in immagini a bassa definizione – e lascio la patinata Salisburgo al suo nulla.

Stoccarda 2023 – Donna senz’ombra – Strauss

Cornelius Meister sa il fatto suo: bella Frosch, scattante, ben concertata, agile – anche se con qualche taglio. Mi ha colpito moltissimo l’imperatore di Benjamin Bruns, bella voce da tenore eroico retta da un’intelligente interpretazione. Merita senza dubbio di stare in primo piano. Niente di nuovo da dire su Herlitzius e Theorin (Nutrice e moglie di Barak), Simone Schneider mi convince sempre più come Imperatrice man mano che l’opera prosegue e metto per ultimo Martin Gantner (Barak) giusto perchè ci deve pur stare qualcuno a chiudere la lista dei protagonisti. Insomma, musicalmente questa Donna senz’ombra è positiva.

Non posso dire la stessa cosa della regia di David Hermann, eclatante caso di in cauda venenum. Nella scena madre in cui l’imperatrice – pensando di vedere il padre – si trova di fronte il marito pietrificato la regia fa apparire un enorme occhio luminoso da insetto. Keikobad? Qualcuno spieghi al malcapitato che, come spesso in Hoffmansthal, il motore della vicenda non compare, nè deve comparire, in scena. Non per questo egli è assente dalla partitura: il suo tema di tre note risuona in tutte le salse durante l’opera.

Può anche farmi piacere il riferimento al Mastroianni in stato interessante di alcuni decenni or sono, ma che Barak muoia quando il dodicesimo spirito gli leva dalla pancia una specie di verme solitario ibridato con Alien e che l’Imperatore indietreggi di fronte al rischio di un simile parto distocico mi sembra una idea di fronte alla quale l’occhio di Keikobad è tutto sommato piacevole. Che peccato! Questi tocchi da maestro conclusivi mi hanno guastato uno spettacolo che mi era piaciuto molto nei primi due atti e mezzo.

Rheingold – Monnaie 2023

Altinoglu è bravo, nessun dubbio su questo, ma nel finale tende a spazzare via la musica senza quell’afflato epico che a me piace e che ritengo indispensabile per darmi quel brivido di elettricità che chiedo a Wagner in generale e in specie al Ring. Del resto già sulla maledizione dell’anello Scott Hendricks offre suoni più parlati che cantati che non mi piacciono per niente. Siamo nel XIX secolo, anche se non bisogna dirlo ad alta voce, Wagner è figlio del suo tempo, le arie le scrive – eccome – e con tutta la retorica imposta dalla sua epoca. Il “maledetto sia questo anello” deve scolpirsi forte e a tutto tondo nella nostra fantasia. E’ un proclama da cui discendono le successive tredici ore di musica (una bagatella). Ma anche l’inizio della terza scena mi è parso sotto-tono, così come non ho apprezzato che un gigante mimasse il canto dell’altro.

Sì, questa è una trovata di Castellucci. Mi piacerebbe chiedere a questo genio se si è mai accorto che Fasolt e Fafner, benchè fratelli, sono molto diversi tra di loro. Wagner, che tende a rappresentare come strutture omogenee i gruppi (ad esempio nel Ring Valchirie, Figlie del Reno, Norne), non differenzia i personaggi se non c’è un motivo preciso per farlo. In questo caso il contrasto tra il gigante che non vuole rinunciare all’Amore e quello che considera Freia un mezzo per arrivare ad altro è capitale. Non è un caso che il primo abbia la peggio e l’altro conquisti l’anello maledetto tanto che sul finale il regista è costretto a lasciare che i due personaggi percorrano ognuno la propria strada.

Ma cosa sto a parlare della costruzione drammatica del Ring a gente che se ne frega altamente? Castellucci mi risparmia la sedia a rotelle e il taglio delle vene ma moltiplica i personaggi, fa muovere le labbra a dei bambini che interpretano gli dei. Alcune immagini sono affatto suggestive e rimangono impresse in testa (tutto l’inizio dell’ultima scena o il fondo del Reno ad esempio) ma faccio a meno dei marmi greco-romani scopiazzati da Chéreau o dei corpi nudi sdraiati a terra che mi hanno rievocato un Ring scaligero-berlinese di alcuni anni or sono. Ma chi sono io per non unire la mia voce ai corifei del capolavoro registico?

Martinů -La passione greca – Salisburgo 2023

L’arrivo di un gruppo di profughi in un villaggio greco che sta mettendo in scena la Passione di Cristo crea uno iato tra Parola Evangelica e azione che sfocia nella tragedia. Prevedibile, inevitabile ma non per questo meno dolorosa.

È l’ultimo Martinů. L’opera, di cui esistono due versioni, sarà data postuma. Il maestro che in America scrisse delle mirabili sinfonie qui supera se stesso. Un’orchestrazione iridescente, dei temi molto lirici, una veemente espressività. Non avrei mai immaginato che Martinů sarebbe riuscito a piacermi ancora più di prima. E non mi sembra vero che il pubblico abbia trovato la forza di rompere con gli applausi la magia di questa musica, ammirevolmente servita da Maxime Pascal, dalla filarmonica viennese e da cantanti da Paradiso Terrestre.

La Felsenreitschule è quasi tutta coperta da una superficie azzurra in cui si aprono due porticine e alcune finestre. Pochi – ma giusti ed impressionanti – i contrasti cromatici. Uno spettacolo che smuove le coscienze e che offre una musica indimenticabile. Perché alterare Mozart e gli altri grandi del passato quando negli ultimi cento anni ci sono simili capolavori che meritano di collocarsi nel repertorio, oltre che nei nostri cuori?

Ligeti – Grand Macabre – Vienna 2023

Venere e il Capo di Ge-Po-Po – entrambi interpetati dalla perfetta Sarah Aristidou – indossano la stessa gonna circolare gigantesca a losanghe gialle. Adesso capisco da chi Adès si è ispirato per il suo Ariel. Nel finale, come già nell’ubriacatura di Nekrozar, è altrettanto evidente quello che verrà trapiantato in “The Tempest”.

Ligeti può essere il punto di arrivo degli spettatori di 2001: Odissea nello spazio, che ritrovano echi del monolite nell’interludio orchestrale che conduce all’ultima scena. Ma può anche fare da casella di partenza verso una modernità che non conosce barriere, che inaugura un lavoro con le trombette delle prime automobili o con un set di campanelli elettrici, che scova sonorità trasparenti ed elettriche, le spigolosità di un’arte che vuole costruire un linguaggio nuovo e libero. Heras-Casado preferisce questa seconda visione quasi zappiana.

L’allestimento è in sintonia con tale approccio: spesso il fondale è costituito da un Bosch strappato, come se dovessimo prendere con le molle le visioni dell’aldilà. La scena centrale porta al parossismo la fantasmagoria di colori e figure – i tavoli sono ricoperti da tovaglie a scacchi rossi, come nelle osterie popolari e intanto i personaggi volano stralunati da una parte all’altra della scena sotto l’occhio di telecamere che ci consentono di vederli contemporaneamente anche dall’alto.

Anarchia, dissacrazione. Amando e Amanda (Maria Nazarova e Isabel Signoret) ammiccano al pubblico sottolineando il loro piacere fisico. Forse Nostradamors e Mescalina (Wolfgang Bankl e Marina Prudensakia) sono gli unici ad essere castigati in rapporto al testo sessualmente bollente che debbono cantare. E Gerhard Siegel sa essere caratterista come si chiede a Piet.

Lascio in fondo Nigl, un Fischer-Dieskau del repertorio contemporaneo, inenarrabile.

Montemezzi – Amore dei tre re – Scala 2023

Non so chi scrisse che nell’opera italiana il basso è impegnato a impedire l’amore tra il soprano e il tenore… di certo questo triangolo forma la trama de L’ Amore dei tre re, l’opera di maggior successo scritta da Montemezzi.
Ci sono il medioevo inventato post-wagneriano, l’espansione lirica italiana, il linguaggio armonico e musicale di tutto il passaggio tra ‘800 e ‘900, un mondo colto a mezza strada tra Puccini, Zemlinski e Strauss. Viene naturale chiedersi fino a che punto sia giusto rivalutare questo repertorio oggi dimenticato. Qualcuno obietterà che non vale la pena faticare con opere che – per quanto osannate al loro apparire – sono state impietosamente sepolte dal tempo. Io invece sono felice di essere entrato in contatto con questo lavoro. Anzi, alla fine del terzo atto ho pensato di aver ascoltato della buona musica niente affatto inutile che merita uno spazio nella produzione di inizio XX secolo.

Sono convinto che questi titoli poco noti ci guadagnino da regie semplici che si limitino a raccontare la storia senza interpretazioni che, del resto, si adattano male a questo repertorio: nessuno qui cerca il puro umano. Penso poi che il direttore Pinchas Steinberg e i suoi artisti (Evgeny Stavinski, Chiara Isotton, Roman Burdenko, Giorgio Misseri e Giorgio Berrugi – giusto per citare i personaggi principali) mostrino un’abnegazione appassionata che da sola basta a far applaudire la loro fatica. D’altronde, mancandomi una conoscenza di questo repertorio non ho pietre di paragone su cui appoggiarmi per giudicare quanto ascolto. Non lasciamoci sfuggire l’occasione di scoprire qualcosa di nuovo.

Lohengrin – Opéra Bastille 2023

Non so quando sia stata effettuata la registrazione. Non l’undici ottobre, ciò che permette di avere come Lohengrin non Floriano Cappone ma Beczala. Un cantante vero, che affina costantemente la sua resa del protagonista, aggiungendo una attenta interpretazione del testo a un colore che manca all’efebo angelicato. Purtroppo dopo che abbiamo sentito Lohengrin proclamare con orgoglio che viene dalla luce e dallo splendore abbiamo l’oscurità fitta di un’Elsa (Johanni van Oostrum) che sta brancolando con una voce incapace di centrare le note, di avere un registro omogeneo e bello. Avevo già notato la mancanza di squillo nel concertato che conclude il primo atto, più volte non mi era parsa eccezionale. Adesso, nella scena madre, mi sembra proprio debole. Non è che io abbia ascoltato troppo spesso Gundula Janowitz, è che mancano i fondamentali. Quelli che invece possiede Ekaterina Gubanova (Ortrud). Il resto della compagnia di canto è più che eccellente, Alexander Soddy tiene i tempi che Wagner si era cronometrato suonandosi in casa l’opera che veniva data in quel momento da Liszt a Weimar. Tutto bello e memorabile.

Posso dire lo stesso della regia di Serebrennikov? Non lo so. Mi piace che si sia sottolineato il lato militare e violento del testo di Lohengrin: il re viene a chiedere rinforzi per la sua guerra. Non mancano dunque mutilati, feriti e morti. Enrico nel terzo atto legge da un foglietto, come un politico qualsiasi, e lo “Heil deinem Kommen” viene rivolto a un soldato da decorare. Non è del resto la sola libertà che ci si prenda con il testo. E’ infatti Ortrud a cantare “Mein Gatte!” alla conclusione dell’opera (meno male, vista la qualità di Johanni van Oostrum).

Se mi va bene la soldataglia che riempie buona parte di Lohengrin, fatico a capire il ruolo di Elsa, scissa in tre persone e ricoverata in ospedale (psichiatria? vedo che finge di prendere la terapia all’inizio del secondo atto). E’ un po’ come se questo Lohengrin avesse due anime di cui la combattente mi interessa mentre la lirica mi sembra un fastidioso peduncolo che mal si adatta alle idee del regista.

Affare Makropoulos – Parigi 2023

Mai chiedere l’età a una signora anche quando non dimostra i suoi 337 anni. Elena Makropoulos, dopo aver provato su di sè l’elisir di eterna giovinezza che il padre aveva preparato per l’imperatore Rodolfo decide che la bellezza della vita sta proprio nella sua caducità. Ella passa dunque la ricetta di gioventù a Krista che però a sua volta rinuncia a seguire le orme della signorina Makropoulos.

I nostri registi non tengono conto delle indicazioni di Karel Capek. Se a Monaco di Baviera Krista utilizzava l’elisir, qui Warlikowski adotta un’opzione più ambigua: la formula rimane in mano a Elena mentre la giovane cantante si pavoneggia nella tenuta da Marylin Monroe indossata dalla rivale all’entrata in scena. Rimaniamo così in dubbio sulla possibilità che la vampiresca EM continui ad esistere.

E’ un’opzione verosimile, tanto più che Warlikowski mescola all’opera degli spezzoni in bianco e nero di film – con e senza Marylin Monroe – che contribuiscono a costruire l’atmosfera di mistero che aleggia sul Caso Makropoulos.

E la musica? L’abito di Janacek si adatta perfettamente alla conformazione di Susanna Malkki: le asprezze e il lirismo della partitura sono puntualmente rese, i cantanti sanno il fatto loro in tutti i momenti. E’ una lettura grande e memorabile che non può lasciarmi indifferente.

Strauss – Salome – Amburgo 2023

Il sito di Arte che ospita questo video mostra impietosamente quali sono i valori che contano oggi quando si parla di opera: grande spazio ai responsabili della parte visiva dello spettacolo e un misero avec a fine pagina per la lista dei volenterosi cantanti che hanno dato vita a una Salome tanto bella musicalmente quanto insignificante in scena.

Stavolta tutti sono presenti a tavola, Jochanaan compreso. Si paga una drammaturga per non capire l’importanza di non far venire subito in scena il protagonista maschile di cui si parla molto, si ascolta la voce, ma la cui presenza fisica giunge solo in un secondo tempo. E poi quando si ha la scena madre tra Salome e il profeta bisogna far uscire tutti dalla stanza del banchetto perchè il dramma di Wilde possa prendersi la rivincita.

Ci può stare Jochanaan che nel finale rimane in scena con la principessa di Giudea, posso anche accettare il Raskolnikov che continua a leggere un libro mentre si cerca di sedurlo, ovviamente Erode e signora non sono mai abbastanza di cattivo gusto, ma la danza dei sette veli che si risolve in una passerella della Grigorian dal volto ricoperto di biacca mi è parso uno dei momenti flop dell’allestimento.

Meno male che posso sempre staccare il video e limitarmi ad ascoltare Nagano e soci intenti a riportare la Salome sul terreno degli elementi che contano davvero.